Un uomo vestito da prete che impugna con una mano un crocifisso e con l’altra un pugnale. Un Papa settantatreenne che affronta il viaggio più lungo del pontificato. Un attentato sventato grazie alla pronta reazione dei collaboratori del Pontefice. Accadde cinquant’anni fa, nel novembre 1970, quando Paolo VI visita Asia e Oceania. Il pellegrinaggio è motivato dalla prima conferenza dei vescovi dell’Asia Orientale ed è tutto rivolto all’incontro con le popolazioni che vivono dall’altra parte del globo, con un messaggio che chiarisce il senso dell’inculturazione della fede e arricchimento alla comunione dell’intera cattolicità.
È lo stesso Paolo VI a presentare ai fedeli, durante un’udienza generale, l’itinerario del viaggio, che ha come prima tappa tre giorni a Manila, poi una puntata in un’isola polinesiana, quindi tre giorni a Sydney, in Australia, per poi proseguire per Giakarta, la capitale della musulmana Indonesia. Da lì un volo verso Hong Kong, “per poche ore, ma sufficienti, noi speriamo per testimoniare a tutto indistintamente il grande Popolo Cinese la stima e l’amore della Chiesa cattolica e nostro personale”. Infine, l’ultima tappa prevista è Colombo. Viaggio lungo e impegnativo ma, spiega Papa Montini, “potere e dovere hanno acceso il volere”.
Paolo VI parte il 26 novembre e l’aereo fa uno scalo tecnico a Teheran, dove il Pontefice viene cordialmente ricevuto dallo scià di Persia Reza Pahlavi. Si decide pure una sosta non prevista a Dacca, nell’allora Pakistan orientale, per un incontro con le popolazioni vittime di un tifone: Montini vuole consegnare una significativa somma di denaro per i soccorsi che comprende il ricavato di una colletta raccolta a bordo dell’aereo tra i giornalisti che lo accompagnano nel viaggio.
Il mattino del 27 novembre, appena sbarcato all’aeroporto di Manila, Paolo VI subisce un attentato che poteva costargli la vita. “Per ogni viaggio”, ha ricordato nelle sue memorie il segretario particolare don Pasquale Macchi, “il Papa fu avvertito che era previsto qualche possibile attentato, a partire dal viaggio in Terra Santa fino all’ultimo in Estremo Oriente. Sempre i servizi segreti misero in allarme la Segreteria di Stato. E ogni volta il Papa affrontò i viaggi senza alcuna preoccupazione, confidando in Dio”. Questa volta però il Papa viene colpito.
“Mentre salutava le autorità, i cardinali e i vescovi”, ha scritto il suo segretario, “il Papa venne aggredito da un pittore boliviano, Benjamin Mendoza y Amor, di trentacinque anni, vestito da sacerdote, che in mano teneva un crocifisso dorato e nell’altra, nascosto da un panno, un kriss (pugnale malese a lama serpeggiante). Con un colpo ferì il Papa al collo, fortunatamente protetto dal colletto rigido, e con un altro al petto vicino al cuore”.
In un appunto steso dallo stesso Pontefice quel giorno si legge: “Se ben ricordo, dopo i saluti alle personalità schierate… vedo confusamente un uomo… il quale impetuosamente mi veniva incontro. Io pensavo che fosse uno dei tanti che volevano salutarmi o baciare la mano, o dire qualcosa… Appena egli fu davanti a me, mi diede con ambedue le mani, due formidabili pugni al petto, e poi subito due altri, tanto che io ne sentii la forte percossa”.
Ecco come don Macchi rivive quei momenti: “Da parte mia, pensando che si trattasse di un fanatico, mi precipitai su di lui con una certa violenza per immobilizzarlo, e lo buttai tra le braccia della polizia, impedendogli così di infierire con altri colpi. Il Papa, dopo un primo istante di smarrimento, sorrise dolcemente… E rivedo altresì il suo sguardo su di me, velato da un leggero rimprovero per la mia irruenza. Poi proseguì verso il palco per il primo discorso, senza accennare all’attentato: il suo abito bianco, però, era segnato da una macchia di sangue”. Decisivo è anche l’intervento del vescovo Paul Marcinkus, l’organizzatore dei viaggi papali, che si avventa sull’assalitore.
È lo stesso Paolo VI, nell’appunto vergato il giorno stesso dell’attentato, a scrivere: “Si montò in macchina. Vidi allora sulla manica (sinistra?) alcune piccolissime goccioline di sangue, e mi accorsi che una mia mano doveva aver toccato qualche cosa macchiato di sangue, forse la mano dell’ignoto aggressore. Continuavo ad avvertire sul petto l’impronta delle percosse, ma nulla più. Si arrivò alla cattedrale. All’atto di indossare i paramenti cercai di lavare le impronte sanguigne della mano, senza darmi altra ragione di ciò che era realmente accaduto”.
Tra i prsnti però non si potè fare a meno di notare la macchia di sangue sul suo abito bianco, nonostante il Pontefice non avesse fatto alcun cenno dell’attentato appena subito. Arrivò sia al palco per il saluto di rito che in cattedrale, ma il suo medico personale, notando la gravità della cosa e soprattutto il sopraggiungere di un attacco di febbre, obbligò il pontefice a sospendere tutti gli impegni di quel pomeriggio.
Ma Paolo VI non volle saperne, continuando il suo viaggio così come era previsto. Le ferite c’erano, questo sì, e furono prontamente curate, ma ciò che colpisce (anche come racconta monsignor Macchi) è vedere “come il Signore abbia voluto, nella sua provvidenza, che non avesse tutto ciò, condizioni letali e ben più gravi”.
Dopo la cerimonia, arrivato in nunziatura, il Papa può finalmente essere visitato. È ancora lui a raccontare: “Potei spogliarmi, e allora mi accorsi che la maglia, intrisa di sudore, aveva una grande macchia di sangue sul petto, dovuta a una piccola ferita, proprio vicina alla regione del cuore, superficiale e indolore: la maglia aveva contenuto l’emorragia, non copiosa del resto. Un’altra ferita, anche più piccola, quasi una scalfittura apparve, a destra, alla base del collo”.
“Subito medicato dalla premura del bravo e sempre pronto Professore Mario Fontana”, continua Paolo VI, “le due ferite furono tamponate e medicate nei giorni successivi, e ben presto guarite… Piccola avventura di viaggio, un po’ di rumore nel mondo (seppi che in Italia, all’arrivo della notizia, il Parlamento sospese la seduta) e grande riconoscenza a quanti si interessarono a me; ma soprattutto grazie al Signore che mi volle salvo e mi concesse di proseguire il viaggio”.
Il medico del Papa, constatate le ferite, pratica un’iniezione antitetanica, che provoca un attacco di febbre. E consiglia a Paolo VI di sospendere gli impegni del pomeriggio. Montini però “decise che il programma si svolgesse come previsto per non deludere le attese della gente e per mantenere il riserbo sull’accaduto”. Così il Papa si reca agli incontri con il presidente Marcos, con il Corpo diplomatico e con una delegazione proveniente da Formosa.
La notizia dell’attentato fa il giro del mondo, ma la Santa Sede non conferma che il Papa sia stato colpito. L’attentatore dichiarerà: “Mi dispiace di aver fallito, lo farei ancora se ne avessi l’opportunità”. Uscirà di carcere pochi anni dopo, grazie al fatto che il Vaticano non si era costituito parte civile.
Ma chi era “lo squilibrato” Benjamin Mendoza y Amor? Come detto era un pittore di origini boliviane e non propriamente di scarso successo. Organizzava mostre dei suoi dipinti un po’ dappertutto e prima di arrivare nelle Filippine aveva esposto anche in Unione Sovietica. Quando fu arrestato si scoprì che sulle lame del pugnale era incisa la frase: ” proiettili, superstizioni, bandiere, regni, spazzatura e merda eserciti“. Mendoza fu condannato a una pena detentiva breve e fu rilasciato su cauzione. Mentre era in prigione chiese a un gallerista di esporgli alcuni dipinti per una mostra. I quadri furono tutti venduti e con parte del ricavato fu pagata la cauzione. Forse, alla ricerca di una maggiore popolarità deve attribuirsi l’attentato a Paolo VI. Infatti, tornato in libertà ricominciò a girare il mondo e, qualche anno dopo, la polizia lo fermò a Roma perché privo di permesso di soggiorno, ma forse il vero motivo era quello del suo nome conosciuto come l’attentatore del Papa, e lo accompagnò all’aeroporto per metterlo su un volo diretto a Rio de Janeiro.
Mendoza dalla scaletta di imbarco griderà:”Arrivederci al prossimo papa che verrà a Manila”.