Scienza e salute – Raggi ultravioletti e Sars Cov-2

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Raggi – Che la luce ultravioletta sia nociva per gli esseri viventi, lo sapevamo. Che la luce ultravioletta si possa impiegare per sanificare e disinfettare superfici e ambienti, pure questo lo sapevamo. Come conciliare le due cose, in un’epoca in cui la disinfezione diventa un aspetto irrinunciabile nella vita di tutti i giorni per combattere una pandemia globale – e gli strumenti per attuarla facendo uso di raggi Uv-C sono alla portata di tutti – lo sappiamo un po’ meno. Ne parliamo con uno dei ricercatori che si stanno dedicando a questi studi, Matteo Lombini dell’Inaf di Bologna.

Esperti di luce, gli astronomi maneggiano quotidianamente radiazione elettromagnetica a qualunque lunghezza d’onda, e conoscono i segreti più reconditi dell’ottica e dell’irraggiamento vantando un’esperienza ineguagliabile. Da quando è iniziata l’era dello spazio e dei telescopi spaziali poi, si sono aperti orizzonti prima inesplorati alle lunghezze d’onda naturalmente bloccate dall’atmosfera terrestre. Parliamo, per esempio, della radiazione ultravioletta, che nello spazio è tipica di sorgenti stellari giovani e indica processi di recente formazione stellare: quella emessa dal Sole giunge solo parzialmente a Terra, ed è risaputo quanto possa essere nociva per gli esseri viventi. Nel tempo, l’uomo ha comunque imparato a sfruttare l’energia di questa radiazione a suo favore, per esempio per disinfettare le superfici e gli ambienti riducendo la presenza di batteri e agenti patogeni. Maneggiare adeguatamente la radiazione a queste frequenze e sfruttarne le potenzialità in questo senso – come vedremo – non è però affatto banale, e richiede uno studio mirato sia sui metodi sia sui patogeni coinvolti.

Torniamo per un attimo allo scorso marzo, quando il governo si è rivolto agli enti di ricerca e alle università per raccogliere idee e proposte che contribuissero alla lotta contro il virus Sars-Cov-2: ricercatori e tecnici l’Istituto nazionale di astrofisica hanno proposto e sviluppato ricerche e progetti riguardanti proprio la disinfezione di aria e superfici mediante l’utilizzo di luce Uv-C. A distanza di qualche mese, facciamo il punto della situazione con Matteo Lombini – ricercatore all’Inaf di Bologna – per come stanno andando questi progetti ma, soprattutto, per sapere come agire consapevolmente di fronte a soluzioni commerciali che prevedono proprio l’utilizzo di raggi Uv-C.

«Come Inaf di Bologna, insieme ai colleghi degli osservatori di Merate e di Padova, abbiamo partecipato a un bando ministeriale Fisr riguardante la sanificazione dell’aria dei respiratori per la ventilazione assistita e siamo in attesa di risposta dai commissari, e abbiamo avuto l’approvazione di un bando della regione Emilia Romagna – assieme alla ditta Intersurgical e al Tecnopolo di Mirandola – con un progetto per la disinfezione dell’aria a valle delle maschere C-Pap. Stiamo studiando metodi per la sanificazione dell’aria nei condotti di ventilazione, assieme al Politecnico di Milano e all’ordine degli ingegneri di Livorno – e questo è attualmente il progetto sul quale sto lavorando più intensamente. Stiamo anche studiando come misurare l’efficienza dei nostri dispositivi e dell’inattivazione dei virus e batteri in aerosol e acqua in collaborazione con l’università di Bologna, l’ospedale Sant’Orsola di Bologna e l’Istituto tumori di Milano. Infine, stiamo finalizzando un contratto di consulenza conto terzi per una ditta che produce una lampada a eccimeri per la sanificazione di superfici».

Quali risultati avete consolidato in questi mesi?

«L’Inaf ha  depositato un brevetto di un filtro Uv-C per la sanificazione dell’aria. Si tratta di una cavità riflettente all’interno della quale la luce rimbalza moltissime volte prima di perdere energia, creando un effetto moltiplicativo dell’energia nel filtro con un conseguente guadagno fino a un fattore dieci in efficienza di disinfezione. L’idea è di usarlo, ad esempio, per sanificare l’aria espirata dai pazienti infetti nelle terapie intensive, a valle dei respiratori. Questo tipo di sanificazione migliorerebbe la sicurezza dell’ambiente delle terapie intensive – anche per il personale sanitario. Analogamente, un filtro del genere utilizzato a monte dei respiratori può proteggere il paziente dal contagio da parte di altri virus e batteri in circolo nell’ospedale».

Qual è il valore aggiunto di uno studio del genere eseguito da astrofisici?

«A differenza di molti altri enti e aziende, noi abbiamo a disposizione software ed expertise di analisi e tracciamento ottico che ci consentono studi quantitativi riguardo la relazione fra luce Uv e patogeni e le conseguenze sulla sanificazione e l’inattivazione del virus. L’Inaf sta collaborando con l’istituto ospedaliero Sacco di Milano per misurare l’inattivazione del virus Sars-Cov-2 a diverse lunghezze d’onda. Nel mondo aziendale, e soprattutto fra i consumatori, manca invece la consapevolezza su quali siano le regole basilari e le attenzioni necessarie in questo campo».

Se dovesse scrivere le istruzioni per l’uso, come le elencherebbe?

«Dunque, che la luce Uv-C funzioni è fatto noto da molto e da molti – basta pensare che i primi impieghi per la sanificazione dell’acqua, ad esempio, risalgono agli inizi del ‘900 a Parigi. Ritengo però che non sia corretto lasciare che le persone guardino a questo tipo di soluzioni come se fossero risolutive, perché esistono alcune precauzioni da prendere e alcuni caveat da tenere a mente».

Quali?

«Primo, è importantissimo essere consapevoli che la luce ultravioletta – in caso di esposizione diretta – è molto pericolosa per gli occhi e per la pelle. Banalmente, basterebbe uno schermo di plastica – che è opaca all’ultravioletto – per ridurre considerevolmente il rischio di incorrere in danni permanenti. Le linee guida sulla massima esposizione consentita sono pubbliche, ed è facile vedere che si tratta di numeri davvero bassi. Secondo, perché la disinfezione risulti efficace è necessario il contatto diretto fra la luce e il virus, inoltre la luce deve avere una determinata potenza – diciamo, genericamente, occorre che un preciso numero di raggi colpisca il patogeno – e di conseguenza un determinato tempo di irraggiamento. A seconda del tipo di virus o batterio serve una potenza di irraggiamento specifica per inattivarlo, a seconda di come è fatta la sua catena di Dna o Rna. Quindi, per citare un esempio, la frase tipo che sentiamo sempre dire associata ad un prodotto “sanifica il 99.9 per cento di virus e batteri” è una frase che non ha senso – esistono alcune categorie di patogeni che sono difficili da debellare. Un altro aspetto importante, poi, è che la luce Uv può funzionare per sanificare le superfici e aria ma solo tramite irraggiamento diretto su superfici pulite. Se sulle superfici c’è la polvere, l’effetto della disinfezione è compromesso. O ancora, se ci sono zone d’ombra o le superfici sono molto rugose, la luce potrà disinfettare solo le regioni che raggiunge, limitando l’efficacia del processo – le misure di calibrazione condotte all’istituto Sacco riguardo la sanificazione delle superfici, infatti, prevedono l’utilizzo di vetrini con superfici liscissime. O ancora, su vestiti e tessuti il metodo non è applicabile. Insomma, le persone devono comprendere che non tutto quello che viene proposto oggi in commercio funziona davvero, e che per ogni soluzione bisogna prestare attenzione ai metodi di applicazione».

Le sembra che il potere disinfettante dei raggi Uv-C sia travisato a livello commerciale e porti talvolta a ricercare soluzioni fintamente efficaci o addirittura dannose?

«Diciamo che, dal momento che stiamo sviscerando in dettaglio e a tempo pieno numerosi aspetti riguardanti la sanificazione Uv-C, abbiamo raggiunto la consapevolezza che non tutti gli strumenti e i dispositivi in commercio sono efficaci. Non dire niente è un po’ come essere complici – e come scienziati penso che abbiamo il dovere di combattere la disinformazione e diffondere la consapevolezza che anche la luce Uv-C, se non utilizzata correttamente, non è in grado di sanificare davvero – e quindi non fomentare la diffusione di un senso di sicurezza che, oltre a non essere reale, rischia di diventare dannoso».

Potrebbe farci un esempio pratico?

«Certamente. In alcuni studi medici o commerciali, ad esempio, si sta diffondendo l’impiego di una sorta di ventilatore che aspira l’aria della stanza da un lato, la fa passare attraverso un filtro con luce ultravioletta per poi farla fuoriuscire – teoricamente – sanificata. Non si conoscono però con precisione i numeri riguardanti le irradianze – cioè la densità di potenza della luce moltiplicata per il tempo – necessarie per inattivare molti virus e batteri, soprattutto nel caso di aerosol. La sensazione di maggior sicurezza da parte di chi utilizza questi dispositivi potrebbe dunque in realtà non essere veritiera».

Altri esempi di questo tipo?

«Esistono in commercio delle lampade a luce ultravioletta senza protezione o schermatura alcuna, che si devono porre ad esempio al centro di una stanza per irradiare e sanificare l’ambiente, esponendo gli utilizzatori meno attenti e consapevoli a un rischio , nonostante venga riportata la pericolosità dell’irraggiamento sulle persone. Un altro esempio? Le lampade che si fanno scorrere sopra le tastiere dei computer per disinfettarle. Si pensa che basti il semplice gesto meccanico per assicurare la riuscita dell’operazione, ma ci sono due parametri da tener presenti per sanificare mediante irraggiamento: l’irradianza, ovvero la potenza della luce – a una determinata lunghezza d’onda – per unità di superficie, e il tempo di esposizione. Dire semplicemente che una lampada fatta scorrere sopra una superficie sanifica la stessa al 99.9 per cento è un’informazione incompleta e fuorviante, se non si rende esplicito il tempo necessario, per unità di superficie affinché la luce Uv-C faccia il lavoro di disinfezione. Mi vengono in mente anche quelle specie di “lavastoviglie” nelle quali vengono inseriti gli oggetti per disinfettarli, sempre utilizzando gli Uv-C: bisogna aver chiaro che se ci sono zone d’ombra o punti di contatto fra superfici, gli oggetti non vengono sanificati».

Come può una persona comune a capire se si sta fidando di qualcosa di scientificamente valido o meno?

«Non c’è una risposta precisa, nel senso che non c’è ancora uno standard commerciale a livello di disinfezione di virus mediante luce Uv-C. Posto che ci sia un numero, poi, il costruttore dovrebbe rendere esplicito – in base alla potenza della propria lampada o all’irraggiamento che essa fornisce per unità di superficie, per centimetro quadrato a una certa distanza – il tempo di permanenza sulla superficie stessa, mettendo in chiaro anche che essa deve essere pulita e che se la superficie è rugosa il risultato non è garantito. La luce Uv-C non è come un gas che si diffonde e raggiunge anche le intercapedini e le zone d’ombra – come l’ozono, ad esempio, che ha però lo svantaggio di rovinare i tessuti e richiedere poi di arieggiare molto gli ambienti perché è dannoso per l’uomo».

Prima ha citato anche un progetto sulla sanificazione dell’aria negli impianti di areazione mediante gli Uv-C, un tema caldo a fronte della riapertura di scuole e aziende, per non parlare degli ospedali. Di che si tratta?

«Si tratta di uno studio che prevede l’utilizzo di lampade a scarica di mercurio a 254 nm da montare all’interno dei condotti di areazione. Il metodo si basa sulla riflessione multipla per generare una densità di energia moltiplicata rispetto all’emissione pura di una lampada. Con l’accortezza di schermare adeguatamente le pareti del condotto, al passaggio dell’aria e in base alla velocità di attraversamento qualunque particella – sia essa di aria o di virus – subirà una certa irradianza. Innanzitutto, stiamo studiando quantitativamente – mediante quei software astronomici molto precisi di cui parlavo prima – la distribuzione della luce, stiamo calibrando la potenza delle lampade impiegate e l’efficacia di sanificazione in funzione della velocità di attraversamento dell’aria. Otterremo quindi una misura di irraggiamento in Joule per centimetro quadro, che deve essere confrontata con i valori delle misure ottenute in laboratorio dal gruppo di Inaf di Merate circa la percentuale di inattivazione del virus Sars-Cov-2».

Testerete questo metodo su un vero e proprio condotto?

«Sì, stiamo cercando degli istituti volontari per provare il nostro sistema. Ci piacerebbe che fosse una struttura Inaf, per dimostrare alla comunità che ci fidiamo di quel che abbiamo progettato e siamo i primi a mettersi in gioco».

Ma come funzionerebbe il test, maneggereste il virus?

«No, assolutamente. Dopo aver montato il dispositivo, è possibile usare delle gelatine particolari a monte e a valle del condotto per monitorare la presenza di batteri o virus nell’aria. Con l’aria è davvero difficile riuscire a misurare il livello di sanificazione, e per di più occorrono delle camere speciali per utilizzare i patogeni. Inoltre, mi ripeto, l’aria deve essere ripulita il più possibile dalla presenza di polvere. Le polveri hanno una duplice azione: da un lato, assorbono parte della radiazione e la rendono meno energetica e meno efficiente, dall’altro potrebbero nascondere all’interno agenti patogeni. Occorre quindi montare un secondo filtro per pulire l’aria dalle nanoparticelle prima di farla passare attraverso i condotti irraggiati. Tornando ai patogeni, dovremo cercare di verificare le prestazioni simulate di questi sistemi di filtraggio dell’aria usando, ad esempio, virus non pericolosi per l’uomo – oppure utilizzare l’acqua anziché l’aria. Lo scopo è quello di dimostrare che le simulazioni sono accurate e attendibili, pertanto non è necessario usare proprio il Sars-Cov-2. È sufficiente che la misura sperimentale riproduca il risultato atteso dalle simulazioni per un campione di prova, e la calibrazione del virus specifico può essere fatta sfruttando le conoscenze derivate da altri studi».

Pensa che questi condotti possano essere applicabili su larga scala?

«Direi di sì. Non si tratta di sistemi complicati né estremamente costosi, potrebbero essere impiegati in istituti, scuole, ospedali. Le lampade sono abbastanza economiche, specie se prodotte in serie, così come le pareti riflettenti, e infine il sistema – dal punto di vista della costruzione – si basa su concetti molto semplici».

Finiamo con una domanda un po’ più personale. Lei si è sempre occupato di strumentazione astronomica e ottiche per telescopi. Come sta vivendo questo cambiamento di prospettiva, di coinvolgimento e di responsabilità conseguente al passaggio dall’astrofisica alla medicina – dai telescopi alla vita delle persone?

«Sto percependo la differenza nel modo di fare e di vivere la ricerca sotto diversi aspetti. Primo fra tutti il fatto che nel lavoro di progettazione e ideazione di strumentazione astronomica i tempi sono mediamente più rilassati. Certo, ci sono delle scadenze nella realizzazione di progetti, ma queste sono su tempi scala di anni solitamente. Mentre in questo caso prima si fa meglio è. È un tipo di urgenza alla quale il mondo della ricerca – il nostro in particolare – non è tanto abituato. Quindi, stiamo cercando di portare il nostro modo di fare ricerca – quantitativo e dettagliato – in un mondo che richiede in aggiunta una riduzione drastica dei tempi, che non sempre è conciliabile. Da parte mia, inoltre, questo si somma anche alla fretta e all’ansia di voler aiutare la comunità, di voler portare un contributo concreto in questa lotta».




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