Storia e personaggi – Il 24 marzo 1797, nasce a Rovereto Antonio Rosmini-Serbati

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Rosmini – Sul finire del XVIII secolo, il 24 marzo 1797, nasce a Rovereto, città trentina di vivaci tradizioni culturali posta ai margini dell’Impero asburgico, Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855), uno dei maggiori filosofi dell’Ottocento europeo, fondatore dell’Istituto della Carità e protagonista della vita religiosa e civile del suo tempo, soprattutto negli anni del Risorgimento italiano.

L’itinerario umano e intellettuale di Rosmini si inserisce in un contesto storico e culturale molto ampio, che esercita su di lui una forte influenza. Sul piano politico lo scenario è dominato dai grandi eventi della Rivoluzione francese e del periodo napoleonico, ai quali segue, dopo il congresso di Vienna del 1815, una lunga fase di Restaurazione, segnata da varie ondate rivoluzionarie, che in Italia culminano nel 1848-49 con la prima guerra di indipendenza e il successivo ritorno dell’egemonia asburgica sulla Penisola. Sul piano culturale Rosmini si pone di fronte da un lato alle sfide del sensismo e dell’illuminismo, in particolare a quello francese di Diderot e dell’Enciclopedia da lui promossa e diretta, dall’altro al criticismo di Kant e ai grandi sistemi dell’idealismo tedesco, da Fichte a Hegel. Complessivamente, sull’uno e sull’altro piano, il filosofo di Rovereto elabora una risposta che cerca di raccogliere e di sciogliere i nodi problematici del suo tempo nel solco della grande tradizione cattolica.

 

La nascita in una famiglia ricca, aristocratica, di grande cultura e apertura intellettuale, ma nel contempo legata alle tradizioni nobiliari e conservatrici asburgiche, austera e religiosissima, ne condiziona l’infanzia e la giovinezza imprimendo su di lui alcuni tratti inconfondibili. Si manifesta presto come fanciullo precocemente dotato e riflessivo, che mette serietà, impegno e finalità edificanti in tutto quello che intraprende, nelle letture di cui è avidissimo e in cui si immerge totalmente attingendo alla ricca biblioteca di casa, nelle amicizie e persino nei giochi. La famiglia Rosmini fin dalle origini, cioè fin da quando il capostipite Aresmino, di ascendenza bergamasca, si è installato a Rovereto nella seconda metà del Quattrocento, è una delle più importanti della città, emergendo nei settori amministrativo, commerciale, ecclesiastico, ma soprattutto distinguendosi come dinastia di intellettuali, che ha sempre inciso nella vita culturale cittadina. Frequentano casa Rosmini i due letterati Antonio Cesari e Clementino Vannetti, il primo veronese e il secondo roveretano, due figure di intellettuali che costituiscono i più importanti punti di riferimento culturale del giovanissimo Antonio. Il Cesari trasmette a Rosmini l’amore per la lingua italiana del Trecento e il gusto del “bello scrivere”. Innamorato della perfezione linguistica, Antonio inizia la sua produzione letteraria imitando gli scrittori del Trecento, improntando in tal modo la scrittura a forme antiquate che la rendono oggi, spesso, di non facile lettura. L’influenza determinante nella sua formazione culturale è quella dello zio Ambrogio, l’intellettuale della famiglia, architetto e pittore, fratello maggiore del padre Pier Modesto. È lui che trasmette al nipote l’amore per l’arte, il senso del “bello” e quell’ideale di armonia di impronta “raffaellesca” che pervade la vita di Antonio e perfino la sua spiritualità. In questo clima culturale egli cresce “amantissimo” della pittura, come scrive nel suo Diario, e sogna di diventare, anche lui, un “Raffaello”. Ma più ancora ama la poesia e la dimensione religiosa, che egli nutre con una precoce lettura della Bibbia, dei Padri della Chiesa e dei teologi del suo tempo.

Nel 1804 è iscritto al corso di istruzione elementare di don Giovanni Marchetti, che aveva fondato a Rovereto la prima scuola modello secondo gli indirizzi della legislazione scolastica asburgica. Dal 1808 al 1814 frequenta il Ginnasio cittadino, ma preferisce immergersi nei suoi studi privati, in particolare i classici latini e italiani, trascurando così lo studio della grammatica e dovendo ripetere la prima ginnasio. Fatto rilevante nella formazione personale e culturale di questi anni ginnasiali è la realizzazione di una collaborazione scolastica fra compagni, nella quale egli si distingue e che  soddisfa non solo le esigenze scolastiche, ma anche le sue aspirazioni più profonde, quelle di una collaborazione amichevole e solidale attorno ai suoi ideali letterari e religiosi. In breve tempo essa si trasforma nella fondazione dell’“Accademia Vannetti”, così chiamata per onorare la memoria dell’illustre concittadino. Tale iniziativa mette in luce Rosmini nell’ambiente roveretano, che ne riconosce le eccezionali doti umane e intellettuali, al punto che l’istituzione culturale più importante della città, l’Accademia degli Agiati, lo aggrega già nel 1814 fra i suoi soci. Di tale Accademia Rosmini diverrà nel 1879 presidente onorario perpetuo.

Sono però i corsi liceali privati degli anni 1815-16, tenuti sotto la guida di don Pietro Orsi, che spalancano a Rosmini le porte di una nuova affascinante disciplina, la filosofia, che egli assume da allora come la chiave di lettura di tutta la realtà e il suo personale ambito di ricerca.

Conclusi brillantemente gli studi liceali e avendo già presa, nel 1814, la decisione di farsi sacerdote, sceglie di iscriversi alla facoltà di teologia dell’Università di Padova. Prende alloggio nel mese di novembre 1816 in un appartamentino vicino alla basilica di S. Antonio, dove risiede il cugino e amico d’infanzia Leonardo Rosmini, che frequenta il secondo anno di legge. Rimane a Padova tre anni e fa molte nuove conoscenze, fra le quali la più incisiva e duratura è quella con Niccolò Tommaseo, giovane studente in legge proveniente dalla Dalmazia, che già si era distinto nell’ambiente universitario come promettente poeta. Rosmini lo accoglie nel suo gruppo di amici più fidati e lo fa partecipe dei suoi progetti, il più importante dei quali, in quel momento, è la redazione di una Enciclopedia cattolica italiana da contrapporre a quella illuminista francese di Diderot.

Nel 1821 viene ordinato sacerdote e nel 1822 conclude gli studi universitari, laureandosi in sacra teologia e diritto canonico. Seguono alcuni anni trascorsi a Rovereto nella quiete del palazzo di famiglia, dove si dedica a due principali filoni di studi, la riforma della filosofia e, sollecitato dai moti rivoluzionari del 1821, la politica. Gli studi di questo periodo prendono il nome di Politica prima o roveretana e in essi Rosmini analizza a fondo il rapporto tra la religione e il potere.

Nel marzo del 1826 si stabilisce a Milano con Niccolò Tommaseo e il segretario Maurizio Moschini. A Milano trova l’ambiente culturale che gli è congeniale e prosegue per qualche anno quegli studi politici che vanno sotto il nome di Politica milanese. Grazie al cugino Carlo Rosmini stringe amicizie importanti, in particolare quella con Alessandro Manzoni e quella con il conte Giacomo Mellerio, che saranno fondamentali per la sua vita futura. Inizia tra Rosmini e Manzoni una delle amicizie più alte della storia culturale italiana: il Manzoni dona all’amico una rara edizione in tre volumi del suo romanzo storico I Promessi Sposi, datata 1825-1826, intermedia tra il Fermo e Lucia del 1823 e quella del 1827. Rosmini dedica al Manzoni un’opera di filosofia della religione di grande impegno intellettuale, Del divino nella natura, che mette in luce quanto profondamente l’Autore, negli anni della maturità, conoscesse anche le religioni orientali.

Nel 1830 Rosmini pubblica la sua prima grande opera filosofica, il Nuovo saggio sull’origine delle idee, e il testo fondamentale della sua spiritualità, le Massime di perfezione cristiana. Segue, nel 1831, un’altra opera basilare, i Principi della scienza morale.

Per condividere l’amore universale, che è ormai divenuto l’ispirazione definitiva di tutta la sua vita, fonda l’Istituto della Carità: nel 1828, a Domodossola, nasce la prima comunità di religiosi rosminiani e nel 1831, a Trento, la seconda casa. Poco dopo vede la luce il ramo femminile dell’Istituto, ossia le Suore della Provvidenza. Nel settembre 1834 accetta l’incarico, su proposta del vescovo di Trento, di reggere la parrocchia di S. Marco a Rovereto, ma mentre in Piemonte il suo Istituto si espande sempre più, con il favore del vescovo locale e del re Carlo Alberto, in Trentino si vanno moltiplicando le difficoltà poste dall’amministrazione austriaca, al punto da indurlo nell’ottobre 1835 a dimettersi dall’incarico di parroco e a chiudere la casa della sua comunità alla Prepositura di Trento. A questo punto si dedica con maggiore intensità alla Filosofia della politica (1837-39), alla Filosofia del diritto (1841-43) e, sul problema del male e della divina Provvidenza nella vita dell’umanità, alla Teodicea (1845).

Gli eventi del 1848 lo vedono entrare come protagonista nella storia del Risorgimento italiano. Quando viene a sapere che Pio IX sta per concedere lo statuto, documento costituzionale che riconosce libertà e diritti ai sudditi, invia al papa alcuni Progetti per lo Stato pontificio. In maggio pubblica la Costituzione secondo la giustizia sociale con un Saggio sull’Unità d’Italia e sempre nello stesso mese fa stampare a Lugano, anonima, la sua opera più famosa, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, che aveva composto nel 1832-33 e tenuto prudentemente inedita: i due scritti delineano un unico, ampio disegno di riforma politica ed ecclesiale.

Nell’agosto del 1848, mentre è in corso la prima guerra d’indipendenza, accetta dal governo piemontese una delicata missione diplomatica presso Pio IX, volta a ottenere un concordato tra la Chiesa e il Regno sardo e insieme una Confederazione tra i vari stati italiani sotto la presidenza del papa, in sintonia con le diffuse aspirazioni neoguelfe. Giunto a Roma, il papa lo accoglie favorevolmente, gli promette la porpora cardinalizia e si dimostra sensibile agli obiettivi della missione. Ma quando nella capitale scoppia la rivoluzione che instaura la Repubblica romana, il papa fugge a Gaeta, seguito da Rosmini, mentre le vicende prendono irrimediabilmente una direzione contraria al disegno politico-ecclesiastico perseguito dal Roveretano. Il papa ritira la costituzione e la curia si avvicina sempre più alla linea filo-austriaca del segretario di Stato, card. Antonelli, che dimostra una crescente ostilità verso Rosmini. Il 15 agosto 1849 giunge a quest’ultimo la notizia che le Cinque piaghe e la Costituzione, già a fine maggio, erano state inserite nell’Indice dei libri proibiti, cioè nell’elenco delle opere che la Santa Sede vietava alla lettura dei cattolici. Con la serenità di chi sa di aver compiuto il proprio dovere, Rosmini si sottomette senza ritrattazioni al decreto di condanna e il 2 novembre 1849 rientra nella sua comunità di Stresa, sul Lago Maggiore.

Ritorna così agli studi, alla fitta corrispondenza epistolare e alle conversazioni con gli amici che lo vengono a trovare nella pace del lungolago stresiano: Alessandro Manzoni, Ruggero Bonghi, Gustavo di Cavour. Nel frattempo continua la stesura della sua opera più monumentale, che rimarrà incompiuta e uscirà postuma, la Teosofia.

Nell’autunno del 1854, rientrato a Stresa dopo un soggiorno a Rovereto, ha un grave peggioramento di salute. Costretto definitivamente a letto, dà le ultime disposizioni ai confratelli, saluta gli ospiti e quanti accorrono al suo capezzale: Alessandro Pestalozza, Ruggero Bonghi, Gustavo di Cavour, Paolo Orsi, Alessandro Manzoni. Riabbraccia anche il vecchio amico Tommaseo che, tornato dall’esilio e quasi cieco, lo viene a visitare due volte. Spira il 1° luglio 1855. Ad Alessandro Manzoni, rimasto con lui fino alla fine, consegna il suo testamento spirituale in tre brevi parole: adorare, tacere, godere.

La morte di Rosmini non pone fine alle ostilità contro il suo pensiero. In un crescendo di polemiche all’interno della Chiesa, si giunge, con il decreto Post obitum del 1887, alla condanna di 40 proposizioni tratte dalle opere postume del Roveretano.

La lenta riabilitazione del pensiero di Rosmini inizia nel secondo dopoguerra e soprattutto nel nuovo clima instaurato dal Concilio Vaticano II. Nel 1965 Paolo VI concede il nulla-osta alla riedizione delle Cinque piaghe. Giovanni Paolo II promuove la causa di beatificazione del Roveretano e nell’enciclica Fides et ratio del 1998 lo pone tra i grandi testimoni di quella “ricerca coraggiosa tra filosofia e Parola di Dio”, di cui l’umanità e la Chiesa hanno oggi un grande bisogno.

 

Il 1° luglio 2001 il cardinale Ratzinger, con una Nota della Congregazione per la dottrina della fede, dichiara “ormai superati i motivi di preoccupazione” che hanno a suo tempo determinato la promulgazione del decreto Post obitum. La riabilitazione di Antonio Rosmini si conclude il 18 novembre 2007 a Novara con la solenne cerimonia di beatificazione.

La verità perenne, e perciò anche attuale, della sua dottrina dell’unità educativa sta, non tanto

nell’aver indicato il fine dell’educazione secondo la visione cristiana della vita (di questo tutti gli

educatori cristiani erano stati consci nel corso dei secoli), quanto nell’aver tentato, con acutezza e

originalità, di articolare intorno a quel fine un rigoroso programma di studi e un metodo didattico

che tengono conto delle esigenze moderne. Tutti i pedagogisti, da Platone a Pestalozzi, a Herbart, a

Fröbel, tanto per fare dei nomi, furono convinti della necessità di trovare un principio e un criterio

unitario dell’educazione. Anche i positivisti ebbero la stessa ambizione. Ma il positivismo fondava

tutto il sapere esclusivamente sull’esperienza, sui fatti, e l’esperienza ci dà soltanto il vario e il molteplice della realtà; e quindi non può dar luogo che a una molteplicità di scienze diverse. Essi perciò potevano ricercare e fondare l’unità soltanto sulle cose, sulle “materie” di studio; con che si coglieva un aspetto della questione, cioè l’unità da realizzare fra le varie nozioni e le varie discipline, ma non si coglieva l’integrale unità dell’educazione. La loro unità era un ordine soltanto esteriore, un incasellamento d’oggetti o di cose o di scienze, che poteva, al più, avere un valore logico e intellettuale. Di qui il loro scadere nuovamente nell’enciclopedismo, nel verbalismo e nello “scientismo”; la cultura divenne “informativa”, non “formativa”; la scuola positivista diede essenzialmente “istruzione”, non “educazione”.

Anche gli idealisti si sono preoccupati di dare unità all’educazione. E ne hanno giustificato

l’esigenza nell’unità dello Spirito, da cui si autogenera tutto il sapere. L’unità che i positivisti ricercavano negli oggetti, gli idealisti la ricavavano dallo Spirito, cioè dal soggetto. Il problema, prima risolto all’esterno, veniva ora spiritualizzato e interiorizzato. Ma l’unità del soggetto spirituale e del sapere, intesa rigidamente come unità sostanziale, cade nell’astratto universalismo e impersonalismo. Infatti l’unità e identità dialettica in fieri, per cui il soggetto empirico si esaurisce tutto nel Soggetto trascendentale, non sfugge al dilemma, o di far svanire la realtà particolare del singolo nell’universale, o di far riassorbire l’universale nel particolare. Nel primo caso si fa naufragare la persona singola (e allora c’è l’unità, ma indifferenziata, nel mondo spirituale e nella cultura); nel secondo si eleva il singolo soggetto, esaltandolo fino a divinizzarlo in ogni suo atto (e allora c’è il diverso ma senza possibilità di una disciplina, e quindi di una educazione, essendo ogni soggetto, in ogni suo atto, l’assoluto creatore del proprio mondo).

La visione finalistica cristiana invece, come è presentata dal Rosmini, dà un indirizzo unitario

all’educazione superando gli scogli dell’una e dell’altra tesi accennata. La sua non è unità di soli

oggetti, e neppure di solo soggetto. Essa disciplina le “materie” in un piano d’istruzione pubblica e

privata, e unifica il soggetto informandone la vita spirituale, ma salvandone il concetto di persona,

perché questa unità discende da una legge che, per quanto superiore e trascendente agli oggetti

empirici e ai singoli soggetti, non è però estranea al soggetto spirituale; e il soggetto anzi la sente in

sé come sua forza nativa e vita intellettuale e morale. Intesa così, l’unità educativa rosminiana è un

energico richiamo alle verità e ai valori eterni, oggettivi, assoluti, della vita, al porro unum necessarium.

L’uomo moderno ha spesso vinto la sua battaglia per una maggiore libertà, ma s’è ubriacato

di soggettivismo, e l’artificio della sua vuota autoesaltazione spesso non riesce a celare l’inquietudine e l’insoddisfazione. È questo un aspetto della cosiddetta “crisi” contemporanea, in cui assistiamo anche a violente e radicali rivolte contro la cultura oziosa e inutile, contro le leggi convenzionali, contro tutti gli ideali, considerati frutto di vana retorica. Si è perduto di vista il fine, dice il Rosmini, quel fine che può ricostruire l’armonia perduta e ridare unità e significato alla vita dei singoli e della società. Spezzati gli argini della vecchia disciplina, per una giustificata maggiore sensibilità ai valori personali del soggetto, l’uomo moderno è caduto però nel soggettivismo e nell’irrazionalismo: nessuna meraviglia che sia divenuto anche iconoclasta. L’oggettivismo pedagogico rosminiano invece non rinnega nessuna delle conquiste recenti, mette al suo vero posto il fine e i mezzi nell’ordine dell’essere, e ripristina l’equilibrio turbato nel mondo dei valori umani, con una interiore disciplina religioso-morale, l’unica valida disciplina possibile.

Riguardo al problema del metodo, l’attualità della concezione rosminiana è affidata anche agli spunti che si riferiscono alla necessità dei bisogni come stimolo dell’attività psichica, all’istinto dell’azione infantile, al sorgere del gioco, all’esistenza d’una vita diretta, inconscia ed emozionale, che richiamano alla mente parecchie teorie più recenti, da quelle del Fröbel, all’attivismo, al freudismo e all’esistenzialismo contemporaneo. Ma ci sembra più doveroso mettere in luce il fatto che il Rosmini ha un valore attuale più che altro per un’altra questione fondamentale. In questi ultimi decenni s’è fatto un gran discutere tra metodisti e antimetodisti: gli uni che affermano, gli altri che negano la possibilità di fissare un metodo, perché, se lo spirito è una realtà variabile, che non può essere sottoposta alla museruola di schemi fissi e definitivi, d’altra parte però lo spirito stesso non è uno sviluppo caotico, babelico, senza ombra di ordine e di disciplina. Il Rosmini si schiera tra i metodisti; ma non pretende di fissare un metodo rigido per tutti gli alunni e per tutti i maestri.

La sua “legge della gradazione” ha un significato essenziale in quanto afferma che l’istruzione è efficace soltanto a patto che essa si conformi al grado di sviluppo psichico dell’educando. Essa è anche una legge d’equilibrio mentale. Infatti i progressi ottenuti troppo alla svelta sono pericolosi, perché non sono preceduti da un’adeguata preparazione. Le tappe affrettate si scontano molte volte con periodi di “crisi” o d’arresto o d’assestamento, per fare dopo quello che si sarebbe dovuto fare prima. E come il non dare a tempo certe cognizioni e il fermarsi troppo a lungo ad un livello inferiore provoca noia e insoddisfazione, così il gettare in pasto alle menti infantili conoscenze troppo difficili provoca scoraggiamento e delusione, o suscita l’illusione funesta di un sapere puramente libresco e astratto.

Il Rosmini non intendeva “meccanizzare” l’istruzione e tanto meno l’educazione, ed egli stesso avverte più volte che le sue distinzioni in “età” e in “periodi” fissati entro limiti precisi hanno soltanto valore approssimativo. Lo spirito dell’educazione rosminiana è proprio l’opposto d’ogni metodismo e d’ogni tecnicismo artificioso; ma riconosce che a un certo punto bisogna pur discendere dal piedestallo delle teorie generiche e che quindi bisogna pur formarsi un metodo e adoperarlo nell’esercizio effettivo dell’attività educativa. Tra l’assenza d’ogni metodo e il metodismo rigoroso c’è indubbiamente la possibilità dell’affermazione d’un metodo che fissi le direttive basilari senza mutarsi in una prigione né per l’educatore né per l’educando, e lasci libera la spontaneità e la coscienza spirituale dell’uno e dell’altro. Il concetto della “spontaneità” non contraddice, ma anzi presuppone la “gradualità”. Infatti la legge di gradazione non è una regola imposta allo spirito dall’esterno, ma è una legge che sorge dalla natura stessa del soggetto, è la sua legge, perché il soggetto è un’attività spirituale, con una sua unità, connessione e progressione continua di vita e di sviluppo, e quindi con una spontaneità razionalmente determinabile.

Contro la pedante precettistica del determinismo sensista, e contro l’assoluta libertà degli idealisti, romanticamente persuasi che lo spirito sia assoluta libertà senza leggi, il ritmo del processo infantile, quale è descritto dal Rosmini, ci appare più aderente alla realtà della vita spirituale umana, che è sviluppo alterno di sintesi e d’analisi che coesistono e si richiamano a vicenda, che è intrecciarsi di energia soggettiva che spontaneamente crea e di stimoli esterni a quella costantemente collegati, che non è un mero prodotto del “mondo naturale” e non è neppure creatrice di questo mondo, ma graduale ascensione, sforzo e conquista soggettiva, gioia di sapere e di fare, che è un attuare personalmente, nella realtà mondana, i valori, per sé impersonali, della verità e del bene.

Il centro vivo della pedagogia rosminiana ci sembra infatti il concetto della persona umana, singola, autonoma, responsabile dei propri atti, libera, ma disciplinata dalla legge morale. Perciò la vera libertà della persona, la sua vera spiritualità, non si esplica nel culto della soggettività in quanto tale, né consiste nella celebrazione dell’individualità “naturale”; sotto un certo aspetto anzi la natura è nemica della persona, e l’educazione della persona si attua proprio come una lotta contro ciò che nell’individuo è pura empiricità naturale, egoismo, e pervertimento, appunto, della persona.

Educare la persona significa far sorgere nell’individuo una forte coscienza di sé, una solida maturità di giudizio e la capacità di decidersi, in piena libertà e autonomia, per il vero e per il bene.

Ma educare significa anche rispettare la persona. Per il Rosmini la persona non solo ha dei diritti, ma è il diritto stesso sussistente. Il fatto che la personalità è per definizione indipendente da qualsiasi possessore, fonda la sua libertà giuridica ed anche la sua libertà morale. Questa concezione della persona è altamente feconda. Non solo essa pone dei limiti all’intraprendenza e agli arbitri di certi educatori, ma elimina anche nel campo politico-giuridico le incertezze più pericolose, in quanto stabilisce come legge e condizione essenziale per la realizzazione della giustizia nella società, che la persona rimanga incolume nella sua vita, nella totalità integrale dei suoi fini, nel libero adempimento del proprio destino, che è il raggiungimento della verità, della virtù e della felicità. E già questo è un insegnamento vitale, che supera le visioni attuali dell’individualismo esasperato e del collettivismo di massa.

Da questo principio, che la persona umana per sua natura ha il diritto di esercitare liberamente tutte le proprie attività, purché esse abbiano un fine onesto e non danneggino gli altri, il Rosmini ha ricavato anche l’argomento essenziale per la sua difesa della libertà d’insegnamento: difesa che in sostanza contiene le idee a cui si abbevereranno tutti gli zelatori della libertà scolastica nelle successive polemiche, e che non nega, anzi riconosce esplicitamente allo Stato il diritto d’istituire proprie scuole e di vigilare contro gli abusi delle scuole degli altri enti pubblici (province e comuni) e dei privati, ma nega allo Stato che voglia essere “liberale” e non dispotico, il diritto di sopprimere quella libera concorrenza che, anche nel campo educativo e metodico, produce frutti più vantaggiosi al benessere generale che non il rigido monopolio.




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