7 Marzo 1965 entra in vigore, in Italia, la istruzione ecumenica Sacrosanctum Concilium,

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Sacrosanctum Concilium – Il 7 Marzo 1965 entra in vigore, in Italia, la istruzione ecumenica Sacrosanctum Concilium, che autorizza l’uso della lingua italiana in diverse parti della messa.

La costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia è una delle quattro costituzioni conciliari emanate dal Concilio Vaticano II.

Fu adottata con 2158 voti a favore e solo 19 contrari e fu solennemente promulgata da papa Paolo VI il 4 dicembre 1963.

Tratta della liturgia della Chiesa cattolica, in particolare di quella della Chiesa latina, in continuità con l’enciclica Mediator Dei di papa Pio XII. I principi ivi enunciati costituirono il punto di partenza per la riforma liturgica attuata dalla Chiesa cattolica dopo la chiusura del Concilio Vaticano II.

Il Concilio tratta in primo luogo dei “principi generali per la riforma e la promozione della sacra liturgia”. Dichiara che “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia”. La natura stessa della liturgia richiede la piena, consapevole e attiva partecipazione dei fedeli e perciò il Concilio dà istruzioni sull’apposita preparazione dei pastori d’anime.

Poi dichiara che “la santa madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia”, affinché “le sante realtà che [i testi e i riti] significano, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria”.

Ricorda che regolare la liturgia spetta unicamente al papa e agli altri vescovi, sia singoli sia nelle “competenti assemblee episcopali territoriali” (le conferenze episcopali), e a nessun altro, anche se sacerdote.

Sulla base di accertati studi teologici, storici e pastorali si possono rivedere parti della liturgia e perciò i libri liturgici (messale ecc.) devono essere rivisti “quanto prima”.

È preferibile la forma comunitaria della celebrazione liturgica (soprattutto della messa), nella quale ognuno, sia ministro che semplice fedele, svolga il proprio ufficio compiendo tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza. La partecipazione dei fedeli deve essere promossa mediante le loro acclamazioni, le risposte, i canti (salmi, antifone ed altri), le azioni e i gesti, e deve essere menzionata nei libri liturgici.

In vista della natura didattica e pastorale della liturgia, i riti devono evitare l’inutile prolissità ed essere in generale facilmente comprensibili.

“Si restaurerà una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta”. La predicazione fa parte dell’azione liturgica e deve essere menzionata nei libri liturgici: è noto che le edizioni tridentine del Messale Romano prevedevano la recita del Credo immediatamente dopo la lettura del Vangelo, eccetto nelle messe solenni, nelle quali la predicazione era facoltativa (“Si autem sit praedicandum …”). “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini.

Dato però che, sia nella messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia”, la cui estensione è lasciata alla decisione (se confermata dalla Santa Sede) della relativa conferenza episcopale.

Per quello che riguarda l’Eucaristia, il Concilio domanda che dell'”Ordo Missae” si faccia una revisione che, conservata fedelmente la sostanza dei riti, li semplifichi, sopprima le duplicazioni e gli elementi introdotti senza grande utilità e restituisca altri elementi andati perduti. Si dovrà leggere la maggior parte della Sacra Scrittura, distribuendone il testo in un ciclo di più anni. È vivamente raccomandata l’omelia, che non si ometta, se non per un grave motivo, nelle messe domenicali e festive con partecipazione del popolo, e si (re)introduca la Preghiera dei fedeli. Il Concilio ripete quello che ha già detto sull’uso, nell’ampiezza determinata dalla rispettiva conferenza episcopale, della lingua nazionale invece del latino. Aggiunge che “i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad essi”. Si raccomanda di dare la comunione ai fedeli con ostie consacrate nella stessa messa e si permette in alcune circostanze la comunione sotto le due specie (pane e vino). Si estende la facoltà di concelebrazione della stessa messa da parte di più sacerdoti.

Il Concilio dà simili istruzioni in relazione agli altri sacramenti e ai sacramentali, alla liturgia delle ore (fra l’altro, distribuzione dei salmi su un periodo più lungo che la tradizionale settimana, e soppressione dell’ora di prima), all’anno liturgico (fra l’altro, riduzione del numero delle feste di santi celebrate ovunque),, alla musica sacra, all’arte sacra e la sacra suppellettile.

La Costituzione sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium è stata il primo frutto del lavoro dei Padri; unico documento nella storia dei Concili che tratta della liturgia nella sua globalità in prospettiva teologica e pastorale; magna charta del rinnovamento liturgico della Chiesa cattolica.

Con sapienza il Documento mette in luce il primato di Dio, la sua assoluta priorità, la centralità del mistero di Cristo celebrato e vissuto. Prima di tutto Dio! Proprio in questa convinzione trova spazio la scelta conciliare di partire dalla liturgia. Infatti, dove lo sguardo su Dio non è determinante, per l’uomo di ogni tempo, ogni altra cosa perde di significato. La Chiesa, Corpo di Cristo e popolo pellegrinante, ha come compito fondamentale quello di glorificare Dio, come esprime il secondo importantissimo documento conciliare: la Costituzione dogmatica Lumen gentium.

Il terzo documento è la Costituzione sulla Divina Rivelazione, Dei Verbum: la Parola vivente di Dio convoca la Chiesa, raduna l’assemblea vivificandola lungo tutto il suo peregrinare nella storia. La Chiesa vive della Parola di Dio, e nutre con essa i suoi figli.

La Chiesa porta al mondo intero la luce che ha ricevuto da Dio, perché sia glorificato; è questo il tema di fondo della Costituzione pastorale Gaudium et spes. Con questo documento sulla “Chiesa nel mondo contemporaneo, , il Concilio non si rivolge soltanto ai fedeli, ma a tutta la famiglia umana

Tra le varie «questioni» che il secolo XX ricevette in eredità dal passato e si trovò ad affrontare, quella liturgica non fu certamente di poco conto. Essa nasceva, come le altre, dal confronto tra la chiesa e il mondo moderno. L’immobilismo che pesava sulle istituzioni ecclesiali dal Concilio di Trento in poi si manifestava in modo eclatante proprio nella liturgia, benché da molte parti e da tempo se ne invocasse la riforma: basti accennare alle richieste del Sinodo di Pistoia (1786), alle intuizioni di Ludovico Antonio Muratori o alle osservazioni sul distacco del popolo dalla liturgia fatte da Antonio Rosmini nella sua famosa opera Delle cinque piaghe della santa chiesa. Il rinnovamento monastico del secolo XIX, la riscoperta del gregoriano e personalità eccezionali come quella di dom Guéranger (Solesmes) avevano preparato il terreno adatto al rinnovamento. Agli inizi del nostro secolo, le riforme di Pio X mostrarono che qualcosa si poteva cambiare e in parallelo si maturava una nuova coscienza di chiesa, più attenta alla sua dimensione spirituale e interiore e spogliata ormai da ogni pretesa temporalistica.

Fu così che nel 1909 a Malines, durante il Congrès national des oeuvres catholiques, ebbe inizio spontaneo il movimento liturgico, che dal Belgio si estese rapidamente alla Francia, alla Germania e anche in Italia. Non possiamo qui descrivere ma solo ricordare l’opera di persone come Lambert Beauduin, Maurice Festugière, Odo Casel, Pio Parsch e Romano Guardini, nonché la fondazione degli istituti liturgici e delle cattedre universitarie di liturgia, come pure la serie imponente dei vari congressi e incontri di studio nazionali e internazionali che furono organizzati nei primi cinquant’anni del secolo. Nacquero riviste specializzate, alcune scomparse e altre che si pubblicano ancor oggi, come ad esempio in Italia la «Rivista Liturgica» (1914), in Francia «La Maison Dieu» (1945), in Germania «Liturgisches Jahrbuch» (1947), quest’ultima erede a sua volta di precedenti riviste. Furono strumenti di comunicazione indispensabili non solo per il dibattito e la diffusione delle nuove idee, ma anche per proposte pratiche di riforma.

Il movimento liturgico si proponeva di rendere viva ed efficace la celebrazione dei misteri cristiani, in modo che i riti «parlassero» agli uomini d’oggi. Nella volontà di raggiungere tale traguardo, si fondevano le varie anime del movimento.

C’era anzitutto l’anima estetico-romantica, che tendeva a restaurare la bellezza e la sobrietà del canto gregoriano e popolare. Già negli anni ’20 si ripeteva lo slogan: «che il popolo canti!». Più importante fu l’anima pastorale, che considerava la liturgia come uno strumento di vita cristiana. Facendo partecipare i fedeli attivamente e coscientemente al culto cristiano, si voleva che da questa fonte i cristiani attingessero il vero spirito di fede. Decisiva si rivelò la terza anima, quella storico-teologica, che ricercava i fondamenti dell’agire liturgico e la natura del culto cristiano. Non si trattava di adottare semplici rimedi palliativi o di introdurre modifiche accidentali dettate da necessità pratiche. Bisognava superare la mentalità delle rubriche e cogliere la sostanza e la profondità del mistero celebrato. Si era capito, cioè, che la prassi liturgica è decisiva per definire e acquisire l’identità cristiana: «l’essenziale della verità cristiana -scriveva Guardini nel 1940 – si manifesta soltanto nel mondo della vita liturgica».

In una retrospettiva storica, proprio la categoria del «mistero», di cui Casel fu il propugnatore, va considerata una riscoperta fondamentale non solo per la liturgia, ma per tutta la teologia e in particolare per la riflessione ecclesiologica. La concezione della chiesa come «corpo mistico di Cristo» fu un’ulteriore acquisizione del movimento liturgico, che trovò accoglienza nel magistero pontificio con l’enciclica Mediator Dei (1947). In tal modo la visione della liturgia intesa come «esercizio del sacerdozio di Cristo» si diffuse sempre più sia presso i pastori che nei fedeli. L’operosità del movimento liturgico, inoltre, ricevette impulso da alcune riforme di Pio XII, come la mitigazione delle norme sul digiuno eucaristico (1953), l’introduzione della messa vespertina e soprattutto il nuovo Ordo della Settimana Santa e della Veglia pasquale (1955). Si giunse così all’immediata vigilia del Concilio Vaticano II.

Volendo sintetizzare il ruolo storico che tutte queste persone e le loro iniziative ebbero nella chiesa, si possono citare le parole di Pio XII che nel 1956 aveva affermato: «Il movimento liturgico… è apparso come un segno delle disposizioni provvidenziali di Dio riguardo al tempo presente, come un passaggio dello Spirito santo nella sua chiesa» (Discorso ai partecipanti al I Congresso internazionale di Liturgia pastorale, Assisi 1956). Sono le stesse parole che il n. 43 della SC applicherà all’intero processo di rinnovamento della liturgia, dimostrando così l’autocoscienza dei padri conciliari circa l’opera che stavano compiendo.

Nella Chiesa del periodo prevaleva una mentalità verticistica, per cui ogni possibile riforma doveva venire dall’alto, dalla Santa Sede, e le iniziative promosse dagli studiosi nei vari convegni apparivano talvolta come pericolose minacce all’ordine e alla tranquillità della chiesa. L’annuncio del futuro Concilio (25 gennaio 1959), fu dunque accolto favorevolmente dai liturgisti, anche se non conteneva un esplicito accenno alla liturgia: era infatti scontato che l’«aggiornamento» della chiesa non potesse prescindere da una seria riforma anche in campo liturgico.

Nella fase ante-preparatoria furono raccolti i voti e le proposte dei vescovi, dei dicasteri romani, dei superiori religiosi e delle università cattoliche di tutto il mondo. Il 20% di tali voti riguardava la materia liturgica, «auspicando…la semplificazione dei riti, l’introduzione della lingua volgare, l’adattamento ai diversi popoli, la partecipazione dei fedeli» (5). L’esame di questo materiale rivela che le attese di molti vescovi e delle istituzioni ecclesiali più rappresentative erano in linea, quando non si identificavano pienamente, con quelle degli studiosi e dei promotori del movimento liturgico.

Il 5 gennaio 1960 fu istituita, accanto ad altre 9, anche la commissione preparatoria per la liturgia. Fu chiamato a presiederla il cardinale Gaetano Cicognani, prefetto della Congregazione dei Riti. Il compito di segretario fu affidato a padre Annibale Bugnini. Facendo tesoro dei voti pervenuti, la commissione si mise alacremente al lavoro. Era composta da vescovi, studiosi ed esperti di 20 diversi paesi, per un totale (alla fine) di 28 membri e 37 consultori, nominati alcuni il 25 agosto 1960 e altri nei mesi successivi. La prima riunione ebbe luogo a Roma il 12 novembre 1960. Servì a dare il primo orientamento ai lavori e a formare le sottocommissioni, che avrebbero avuto il compito di rispondere alle questioni selezionate dalla segreteria tra tutto il materiale delle proposte pervenute. Alcuni argomenti erano molto pratici (il calendario, l’arte sacra, le vesti liturgiche e la sacra suppellettile): per evitare il pericolo di ricadere nelle rubriche si decise di premettere al tutto una questione fondamentale sul mistero della sacra liturgia e del suo rapporto con la vita della chiesa. Si ebbero così in tutto 13 questioni affidate ad altrettante sottocommissioni, che presero a riunirsi separatamente e in luoghi diversi per stendere il loro contributo.

Un grande sforzo redazionale fu fatto in pochi mesi, in vista della seconda riunione plenaria, che ebbe luogo sempre a Roma dal 12 al 22 aprile 1961. I vari testi preparati dalle sottocommissioni, furono poi fusi insieme a cura della segreteria e il 10 agosto 1961 si poté così inviare a tutti i membri e consultori un primo Schema Constitutionis: un volume di ben 252 pagine.

Già si delineavano a questo punto le prime difficoltà che si sarebbero dovute affrontare: anzitutto lo scoglio della lingua latina, il cui ventilato abbandono veniva visto come un colpo di mano dei liturgisti. Risultava difficile anche elaborare teologicamente la natura e i fondamenti della liturgia. Per questo dall’11 al 13 ottobre 1961 si tenne una riunione dell’apposita sottocommissione, che cercò di fondere in un unico testo il futuro primo capitolo della SC. Accanto alla prospettiva incarnazionista, per cui la liturgia appariva sotto la categoria di «causa strumentale», fu inserita una visione meno scolastica e più biblica, centrata sul mistero pasquale e attenta alla dimensione escatologica. In questo lavoro si distinse particolarmente il contributo della scuola francese, rappresentata da mons. Jenny e da A.G. Martimort. Poco sviluppati furono invece alcuni aspetti, come il tema del sacerdozio dei fedeli, fondamento teologico della partecipazione dei laici alla liturgia, nonché la riflessione sulla natura dei sacramenti, di cui si volevano certo riformare i riti, senza però rispondere al problema di una prassi sacramentale tutta da «risignificare» nella nuova cultura dell’uomo moderno.

La terza e ultima riunione plenaria della commissione preparatoria ebbe luogo a Roma dall’11 al 13 gennaio 1962. In essa fu elaborato il testo definitivo dello schema preparatorio, che comprendeva otto capitoli e 107 paragrafi, intercalati da Declarationes, che spiegavano i motivi e i principi ispiratori ai quali i diversi articoli si richiamavano. Queste Declarationes furono poi abolite nel testo consegnato ai padri in aula conciliare. Il 1 febbraio 1962 il card. Gaetano Cicognani sottoscrisse e trasmise lo schema «De sacra Liturgia» alla commissione centrale preparatoria: fu il suo testamento, perché morì quattro giorni dopo, il 5 febbraio 1962. Di lui si può dire che aveva favorito con fiducia il lavoro dei vari esperti e consultori, accogliendone suggerimenti e proposte. Pur nel travaglio delle successive discussioni, modifiche e revisioni, questo schema è l’unico fra tutti quelli preparati ante Concilio che sia rimasto sostanzialmente invariato, mantenendo il suo impianto fondamentale. Passando per il filtro della commissione centrale preparatoria subì cambiamenti e mutilazioni, soprattutto quella già accennata delle Declarationes. E’ certo comunque che la commissione preparatoria aveva fatto un eccellente lavoro e prodotto un documento che parlava un linguaggio nuovo.

Rimaneva però insoluta una questione che all’apertura del Concilio diventò scottante: si dovevano proporre nella costituzione liturgica soltanto norme generali e «altiora principia», lasciando alla Santa Sede la realizzazione via canonica della riforma, oppure i padri potevano e/o dovevano prendere decisioni concrete? La curia romana e molti vescovi propendevano per la prima ipotesi, come era evidente dalla nota iniziale aggiunta allo schema consegnato in aula; fu durante il Concilio che la seconda soluzione divenne vincente, non senza compromessi e soltanto sotto forma di una «legge-quadro» o di un’«opera aperta», che si sarebbe dovuto completare in seguito.

 

La solenne celebrazione dell’11 ottobre 1962, con la quale venne inaugurato il Concilio Vaticano II, fu valutata dal grande pubblico come imponente e maestosa. Ma i più acuti osservatori non furono di questo avviso.

Scrisse Congar nel suo diario: «Il movimento liturgico non è penetrato fino alla Curia romana. Questa immensa assemblea non dice niente, non canta». La «Cappella Sistina» gli appare come un coro d’opera e gli «eleganti gorgheggi di professionisti prezzolati» lo indignano tanto che preferisce abbandonare la basilica di S. Pietro prima che il papa pronunci il suo memorabile discorso. Jungmann annota: «Così forse doveva essere reso visibile il terminus a quo delle cose liturgiche» Anche in seguito, nella prima sessione conciliare, si riscontra nelle celebrazioni liturgiche la totale assenza di ogni atto comunitario, proprio mentre si discute di actuosa participatio dei fedeli. Il 4 novembre 1962, in occasione dell’anniversario dell’elezione del papa, ci fu una «Messa solenne, davanti al Santo Padre esposto», come si espresse mons. Khoury, arcivescovo di Tiro (8). In seguito le celebrazioni conciliari divennero via via più partecipate e si poté già vedere in esse, specialmente in quelle della quarta sessione, l’effetto positivo della SC.

  1. a) La commissione conciliare per la liturgia

 

Il primo atto cui i padri furono chiamati fu, com’è noto, l’elezione delle varie commissioni. Anche per la liturgia, come per gli altri ambiti, si dovevano eleggere tra i vescovi del Concilio 16 membri; a questi il papa ne aggiunse altri 9, in modo che ogni commissione era composta da 25 persone. Rispetto a quella preparatoria, la nuova commissione risultò mutata del 56% dei membri: ebbe come presidente il card. Larraona, prefetto della congregazione dei riti, il quale, al posto di A. Bugnini, chiamò all’ufficio di segretario Antonelli.

Questa sostituzione sembrava sconfessare l’operato della commissione preparatoria. Inoltre il cardinale Lercaro, allora forse il più illustre rappresentante del movimento liturgico italiano, non era stato eletto nella lista votata dai vescovi italiani, ma in quella degli episcopati «stranieri». Nonostante queste perplessità iniziali e una certa disorganizzazione, il dibattito sulla schema ebbe regolarmente inizio il 22 ottobre 1962, com’era stato preannunciato. Per suddividere meglio il lavoro, furono create poi 13 sottocommissioni: 3 si occupavano di questioni generali (teologiche e giuridiche); 3 esaminarono ciascuna una diversa parte del cap. I e le altre 7 studiarono i rimanenti capitoli dello schema.

 

  1. b) Il dibattito conciliare sulla liturgia

Spettò al cardinale Larraona e a padre Antonelli introdurre i padri nel vivo della discussione sullo schema De sacra Liturgia. Esso consisteva in una breve premessa sull’importanza della liturgia nella vita della chiesa e in otto capitoli, più tardi ridotti a sette, in quanto la trattazione dell’arte sacra e della sacra suppellettile (originariamente capp. VI e VIII) fu riunita nell’attuale settimo capitolo. Il dibattito durò complessivamente per 15 congregazioni generali dal 22 ottobre al 13 novembre 1962 e contò ben 328 interventi orali, oltre a 297 interventi scritti, terminando con il voto fondamentale del 14 novembre (2162 voti a favore, 46 contrari e 7 nulli) che approvò i criteri direttivi dello schema, rinviandolo alla commissione conciliare per gli emendamenti definitivi.

Durante la prima sessione si fece in tempo a votare soltanto il primo capitolo emendato, che il 7 dicembre 1962 ricevette 11 non placet, 180 placet iuxta modum e 1992 placet. Questa amplissima maggioranza, specialmente nella prima votazione, fu per tutti una sorpresa e non lascia trasparire l’ardore e i contrasti che ebbero luogo durante la discussione. Si deve dire però che molti degli interventi contrari allo schema erano fatti a titolo personale e non rappresentavano il parere di un’intera conferenza episcopale.

Si ebbero in sostanza tre schieramenti. C’era un piccolo gruppo (3% dei padri), molto attivo nel respingere sistematicamente ogni tentativo di riforma. «Il protestantesimo è alle porte», ripeteva il card. Ruffini (9). Un secondo gruppo, abbastanza numeroso, era formato dai moderati, che apprezzavano l’equilibrio dello schema e desideravano un giusto adattamento della liturgia alle mutate condizioni storico-culturali. Infine un terzo gruppo, composto in prevalenza dai vescovi missionari e del terzo mondo, desiderava riforme più radicali e godeva le simpatie dei liturgisti. Si può ricordare a questo proposito il fascino che esercitava la famosa Missa Luba, un tentativo di rivestire i testi latini della messa con musiche tradizionali africane. Non era un buon esempio di adattamento culturale della liturgia, ma contribuiva a spingere verso l’auspicata riforma. Tutto ciò aiuta a spiegare l’esito positivo e inaspettato delle votazioni.

Nei mesi che precedettero la seconda sessione del Concilio, fu svolto un sollecito lavoro redazionale, grazie anche all’eccellente supporto organizzativo fornito dal segretario Antonelli, dai suoi assistenti e dal convento di suore francescane che assicurava la trascrizione dei vari interventi. Così nell’ottobre 1963 si procedette a votare i capitoli dal II al VII e i relativi emendamenti (modi). Talvolta fu necessario votare più volte lo stesso capitolo, poiché il numero dei modi superava nei punti più controversi anche il terzo dei voti. Finalmente, il 22 novembre 1963, ebbe luogo la votazione sullo schema nel suo insieme col il seguente risultato: votanti 2178; 2158 a favore, 19 contrari, 1 nullo. La via era dunque aperta per la solenne promulgazione della costituzione sulla sacra liturgia, il primo documento conciliare portato a termine. La discussione, iniziatasi con Giovanni XXIII, era stata guidata a conclusione da Paolo VI: entrambi i pontefici videro come fatto provvidenziale l’aver iniziato i lavori del Concilio con lo schema della liturgia. «Noi vi ravvisiamo l’ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio al primo posto; la preghiera prima nostra obbligazione; la liturgia prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che possiamo fare al popolo cristiano» (Paolo VI, 4 dicembre 1963, discorso di chiusura della II sessione).

 

c) I punti controversi della discussione conciliare

Come si è visto, il dibattito di gran lunga più importante fu quello sul primo capitolo, in cui le parti teologico-dottrinali si alternavano alla trattazione di questioni pratiche, formando un miscuglio poco ordinato che comprendeva così tutti gli argomenti più scottanti. Tra questi il problema della lingua liturgica e più in generale dell’adattamento della liturgia all’indole dei vari popoli; la concelebrazione; la comunione sotto le due specie; l’autorità competente per la riforma liturgica e infine la stesura dei nuovi libri liturgici per i sacramenti e l’ufficio divino.

L’abbandono della lingua latina e l’introduzione delle lingue volgari appariva alla minoranza conservatrice come pericolosa innovazione, che avrebbe condotto allo scisma e all’eresia (10). Inoltre, appena qualche mese prima, il 22 febbraio 1962, il papa aveva emanato la costituzione Veterum Sapientia sullo studio del latino, per cui sembrava che la questione fosse già risolta negativamente. Su questo punto le discussioni pro e contro sembravano senza fine, tanto che ci si rese conto che il Concilio si sarebbe prolungato oltre ogni limite se tutti gli schemi fossero stati esaminati con una simile minuziosità. Per fortuna, su precisa indicazione del papa, il 6 novembre 1962 la presidenza fu autorizzata a sospendere la discussione su di un tema qualora i futuri interventi non avessero apportato alcun elemento di novità. Questa decisione di ordine procedurale permise di snellire di molto le discussioni e di dichiarare esaurito un argomento. Inoltre si deve segnalare la capacità di mediazione e di intelligente flessibilità di alcuni periti conciliari, soprattutto di A. G. Martimort, che riuscirono a convincere i padri ancora dubbiosi e a smussare i contrasti. Si ricordi, ad esempio, che proprio parlando contro la possibilità di riformare la struttura della messa, il cardinal Ottaviani superò il tempo concesso e dovette essere interrotto dal cardinal Alfrink. L’imponente applauso che ne seguì, fece infuriare Ottaviani al punto tale che per due settimane non si fece più vedere nelle congregazioni generali. Il problema della lingua si intrecciava con quello dell’autorità competente in materia liturgica: salvo il diritto della Santa Sede, fu decisivo il dibattito sul n. 36 § 3 della SC, in cui si approvò che i vescovi di una determinata conferenza episcopale avevano il diritto di stabilire e non solo di proporre alla Santa Sede l’adozione della lingua volgare.

Questo ampliamento delle facoltà dei vescovi, in un momento in cui l’ecclesiologia conciliare era ancora poco sviluppata , fu probabilmente il punto nevralgico delle discussioni. Infatti, anche per per la comunione sotto le due specie e per la concelebrazione (rispettivamente nn. 55 e 57 della SC), si decise che fossero i vescovi l’autorità competente al riguardo. Il fatto di affrontare questi due problemi, di carattere apparentemente solo disciplinare, soprattutto se si considerano con la mentalità attuale, permise allora di mettere in risalto la dimensione comunitaria e pasquale del mistero eucaristico, rimasta per tanti secoli in ombra. La piena partecipazione dei fedeli all’eucaristia, significata nell’assunzione delle due specie, e il superamento della devozione privatistica nella celebrazione della messa, furono, così, decisivi grandi passi in avanti nel rinnovamento liturgico. L’accento fu posto sulla natura teandrica del celebrare, visto come un atto in cui lo spessore umano (il rito) viene sì permeato dall’agire divino, ma nello stesso tempo lo determina e lo concretizza, per cui sarà sempre necessario «riformare» il rito per renderlo adeguato, sia pure imperfettamente, al mistero che si celebra. Inoltre, l’aver riscoperto che tutto il popolo cristiano, l’assemblea riunita, è «il soggetto integrale dell’azione liturgica», come dice Congar, permise di situare meglio il rapporto tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune.

Infine fu affrontato il problema dei nuovi libri liturgici, necessari strumenti per una nuova mentalità celebrativa. Su questo punto l’accordo fu più facile, anche perché si demandava il lavoro di revisione e di stesura ad apposite commissioni formate da persone competenti di ogni nazionalità e coordinate dalla Santa Sede. Fu questo il compito del Consilium ad exsequendam constitutionem de sacra liturgia, ma con ciò si entra nella storia del post-concilio.Si può dire senz’altro che con la riforma dei libri liturgici e la loro traduzione nelle varie lingue la SC dimostra tutto il suo carattere di «opera aperta», di cantiere sempre in attività per realizzare il necessario adattamento e l’incarnazione culturale della liturgia.

 

Al termine del secondo periodo del Concilio Paolo VI definì la SC come «frutto di una discussione ardua e intricata», e il rinnovamento liturgico appare oggi «il frutto più visibile di tutta l’opera conciliare» (12). Sono due affermazioni sulle quali è facile concordare. Non a caso la liturgia è stata anche il contrassegno della discordia e della divisione post-conciliare: basti ricordare la vicenda di Mons. Marcel Lefebvre. Forse oggi molte parti della SC sono superate, ma certamente quello del Concilio fu «un atto di grande coraggio e apertura» (P. Visentin), soprattutto se si tiene conto dell’immobilismo che in questo campo da secoli gravava sulla chiesa. La SC contiene affermazioni teologiche fondamentali (come quella cristologica del n. 7, la sottolineatura della chiesa come sacramentum Christi e la centralità del mistero pasquale), nonché alcuni princìpi, come quello dell’adattamento culturale della liturgia, che la rendono tuttora un punto di riferimento insostituibile per la storia della chiesa nel secolo XX.




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