Papa – Papa Francesco ne parla all’udienza generale di questo mercoledì e spiega che non c’è terra più bella da ereditare che il cuore del fratello, la pace ritrovata con lui.
Proseguendo il ciclo dedicato alle Beatitudini, all’udienza generale di oggi in Aula Paolo VI, Papa Francesco parla della mitezza. E’ la terza delle otto Beatitudini del Vangelo di Matteo: “Beati i miti perché avranno in eredità la terra”. In Aula Paolo VI, Papa Francesco parla della mitezza. Spiega che la parola “mite” significa dolce, mansueto, gentile, privo di violenza e nota che “la mitezza si manifesta nei momenti di conflitto”, perché “chiunque potrebbe sembrare mite quando tutto è tranquillo”. Il comportamento mansueto mantenuto da Gesù nella Passione ne è un esempio. Ma la parola mite nella Sacra Scrittura indica anche “colui che non ha proprietà terriere”. La terza Beatitudine specifica invece che proprio i miti ‘avranno in eredità la terra’.
“Cari fratelli e sorelle, buongiorno!” ha esordito il pontefice in una nuvolosa mattinata capitolina.
“Nella catechesi di oggi affrontiamo la terza delle otto beatitudini del Vangelo di Matteo: «Beati i miti perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5).
Il termine “mite” qui utilizzato vuol dire letteralmente dolce, mansueto, gentile, privo di violenza. La mitezza si manifesta nei momenti di conflitto, si vede da come si reagisce ad una situazione ostile. Chiunque potrebbe sembrare mite quando tutto è tranquillo, ma come reagisce “sotto pressione”, se viene attaccato, offeso, aggredito?
In un passaggio, San Paolo richiama «la dolcezza e la mansuetudine di Cristo» (2 Cor 10,1). E San Pietro a sua volta ricorda l’atteggiamento di Gesù nella Passione: non rispondeva e non minacciava, perché «si affidava a colui che giudica con giustizia» (1 Pt 2,23). E la mitezza di Gesù si vede fortemente nella sua Passione.
Nella Scrittura la parola “mite” indica anche colui che non ha proprietà terriere; e dunque ci colpisce il fatto che la terza beatitudine dica proprio che i miti “avranno in eredità la terra”.
In realtà, questa beatitudine cita il Salmo 37, che abbiamo ascoltato all’inizio della catechesi. Anche lì si mettono in relazione la mitezza e il possesso della terra. Queste due cose, a pensarci bene, sembrano incompatibili. Infatti il possesso della terra è l’ambito tipico del conflitto: si combatte spesso per un territorio, per ottenere l’egemonia su una certa zona. Nelle guerre il più forte prevale e conquista altre terre.
Ma guardiamo bene il verbo usato per indicare il possesso dei miti: essi non conquistano la terra; non dice “beati i miti perché conquisteranno la terra”. La “ereditano”. Beati i miti perché “erediteranno” la terra. Nelle Scritture il verbo “ereditare” ha un senso ancor più grande. Il Popolo di Dio chiama “eredità” proprio la terra di Israele che è la Terra della Promessa.
Quella terra è una promessa e un dono per il popolo di Dio, e diventa segno di qualcosa di molto più grande di un semplice territorio. C’è una “terra” – permettete il gioco di parole – che è il Cielo, cioè la terra verso cui noi camminiamo: i nuovi cieli e la nuova terra verso cui noi andiamo (cfr Is 65,17; 66,22; 2 Pt 3,13; Ap 21,1).
Allora il mite è colui che “eredita” il più sublime dei territori. Non è un codardo, un “fiacco” che si trova una morale di ripiego per restare fuori dai problemi. Tutt’altro! È una persona che ha ricevuto un’eredità e non la vuole disperdere. Il mite non è un accomodante ma è il discepolo di Cristo che ha imparato a difendere ben altra terra. Lui difende la sua pace, difende il suo rapporto con Dio, difende i suoi doni, i doni di Dio, custodendo la misericordia, la fraternità, la fiducia, la speranza. Perché le persone miti sono persone misericordiose, fraterne, fiduciose e persone con speranza.
Qui dobbiamo accennare al peccato dell’ira, un moto violento di cui tutti conosciamo l’impulso. Chi non si è arrabbiato qualche volta? Tutti. Dobbiamo rovesciare la beatitudine e farci una domanda: quante cose abbiamo distrutto con l’ira? Quante cose abbiamo perso? Un momento di collera può distruggere tante cose; si perde il controllo e non si valuta ciò che veramente è importante, e si può rovinare il rapporto con un fratello, talvolta senza rimedio. Per l’ira, tanti fratelli non si parlano più, si allontanano l’uno dall’altro. E’ il contrario della mitezza. La mitezza raduna, l’ira separa.
La mitezza è conquista di tante cose. La mitezza è capace di vincere il cuore, salvare le amicizie e tanto altro, perché le persone si adirano ma poi si calmano, ci ripensano e tornano sui loro passi, e così si può ricostruire con la mitezza.
La “terra” da conquistare con la mitezza è la salvezza di quel fratello di cui parla lo stesso Vangelo di Matteo: «Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello» (Mt 18,15). Non c’è terra più bella del cuore altrui, non c’è territorio più bello da guadagnare della pace ritrovata con un fratello. E quella è la terra da ereditare con la mitezza!”.
Quando il clima è mite, la temperatura è gradevole. Quando una persona è mite, la sua compagnia è piacevole. Eppure una “lingua mite può rompere un osso”, osservò il saggio re Salomone. (Proverbi 25:15) La mitezza è una qualità straordinaria che unisce piacevolezza e forza.
La mitezza nella società contemporanea viene spesso concepita come sintomo o indizio di passività, debolezza e mancanza di coraggio. Ma in realtà, specialmente da un punto di vista evangelico, il mite è il giusto, è colui che ha ricevuto in dono uno spirito di giustizia, e dunque è anche colui che è paziente in quanto non chiede o non pretende nulla per sé perché sempre si dispone ad esser soggetto alla volontà di Dio, colui che non mormora e non si ribella al Signore ma si mette umilmente nelle sue mani. Se il mite è il giusto, è evidente che egli, nonostante le letture distorte o banali che spesso se ne danno, non possa né compiacersi del male né essere indifferente alle tante iniquità del mondo.
Al contrario, il mite-giusto, sempre caritatevolmente dalla parte dei deboli e degli oppressi, non mancherà di stigmatizzare profeticamente comportamenti personali e sociali di peccato e strutture arbitrarie o violente di potere politico ed economico, talvolta ricorrendo anche ad una “giusta ira”, che è poi quella cui ricorse Gesù in modo clamoroso per cacciare i mercanti dal tempio e quindi per preservare la purezza della fede da vili interessi economici o finanziari. La mitezza dunque, secondo il vangelo su questo punto in linea con l’Etica nicomachea di Aristotele, non va disgiunta dal coraggio ma fa tutt’uno con esso.
l mite è colui che sa rispettare come un fratello anche chi sbaglia ma questo non implica che egli debba giustificare l’errore in quanto tale o essere permissivo verso condotte peccaminose proprie o altrui. Il mite è soprattutto colui che, pur disponendo della opportunità o della forza di annientare un avversario malvagio o in malafede, non infierisce su di lui; è colui che, pur potendo colpire non colpisce ma cerca altre soluzioni; è colui che nei rapporti interpersonali si sforza sempre di perdonare chi attenta alla sua vita o alla sua onorabilità ed affida la sua causa al Signore, o che nei rapporti politici ed internazionali non si stanca di fare uso del dialogo e della diplomazia. Ecco: è questo l’uomo mite che “erediterà la terra”, che riceverà la terra in eredità come dono di Dio.
Benché possa essere caratterialmente collerico, l’uomo mite è colui che si sforza incessantemente di moderare i suoi impulsi, i suoi scatti di nervi, i suoi sfoghi, per amore del prossimo e di Dio. San Paolo, cui avvenne di essere collerico in più di un’occasione (At 15,39) riconosce e consiglia saggiamente che, persino nei casi in cui si è deliberatamente presi di mira, non bisogna farsi giustizia da soli, che l’ira è di Dio e non dell’uomo e che l’uomo è tenuto a rintuzzarla in sé continuamente perché sta scritto: “a me la vendetta, io darò la giusta paga, dice il Signore” (Rm 12,19). Bisogna essere sempre pronti a raffreddare l’ira per cose che riguardano il proprio io, mentre di fronte al peccato pubblico o privato, e sia pure senza cadere in eccessi di arroganza e fanatismo, è del tutto legittimo e in taluni casi necessario partecipare alla “santa ira” di Dio: si pensi all’ira di Mosé contro il suo popolo per essersi costruito il vitello d’oro sul monte Oreb (Es 32, 19-22) o ai fremiti di sdegno provati da san Paolo ad Atene nel vedere “la città piena di idoli” (At 17,16). Al cospetto di tali e simili forme di peccato e di idolatria, come recita Geremia, gli uomini di Dio devono essere “ripieni dell’ira di Jahvé” (6,11 e 15,17).
La mitezza evangelica non è un dato caratteriale ma una faticosa e continua conquista spirituale, non è una forma di quietismo o di indifferentismo psicologico ed esistenziale ma la ricerca volontaria di un modo di essere di fronte alle costanti provocazioni e prevaricazioni di cui è lastricata la quotidianità. Il mite non è un ingenuo o uno sprovveduto ma un soggetto ben consapevole di come sia arduo vivere con mitezza evangelica in un mondo sovraccarico di abusi e di soprusi, è il giusto-innocente, nel senso etimologico del latino in-nocentia ovvero del non nuocere praticamente e spiritualmente né a sé né agli altri; è colui che, nonostante la sua notevole capacità di discernimento e la sua lodevole integrità morale, si sente sempre sommamente imperfetto e peccatore agli occhi di Dio non per puro scrupolo ma per la conoscenza oggettiva dei suoi limiti reali e possibili che lo sprona appunto a compiere opere utili a sé e agli altri sotto un profilo eminentemente spirituale.