Storie da non dimenticare – 24 novembre 2015 – Lettera di un padre alla figlia assassinata al Bataclan

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Bataclan – Un attacco al cuore di Parigi che allora fece scandalo ma che oggi sembra dimenticato.
Eppure, da quel funesto giorno, alcune vite si sono spente, altre sono cambiate e la stessa Parigi non è più la città che amavo e frequentavo con piacere. La violenza è giunta, gli assassini hanno colpito e nessuno di noi deve dimenticare quanto sia minaccioso aprire i confini a tutti e non controllare i soggetti pericolosi nel nome dell’integrazione e del finto buonismo.
A voi la lettera di un padre che, in quel giorno rosso sangue per Parigi ha perso la figlia….

“Te l’avevo detto Leá. Ti avevo detto che, fosse stato per me, a quel concerto non ci saresti andata. Un concerto degli Eagles of Death Metal con quel ragazzo che ti porti dietro da due anni. Quel Thomas. Dovevi darmi retta Leá. Invece di arrabbiarti dovevi darmi retta, dirmi che ero stato un buon padre e che non ti avevo mai fatto mancare niente. Dovevi tornare a casa e raccontarmi come fosse stato. Dovevi dirmi che Thomas ti aveva chiesto di sposarlo sulle note di quella canzone, se così possiamo chiamarla, che mettevi sempre quando litigavamo. Quella che hai messo anche stasera. Prima di uscire. Prima di dirmi che mi odiavi. Prima di urlare che la mamma sarebbe stata contenta di vederti con Thomas a quel concerto. Prima di dirmi che poi te ne saresti andata. E non ti ho preso sul serio. Lo dicevi sempre e puntualmente c’eravamo tu ed io sul divano. Tu con la tua testa sulla mia spalla e io con le mia mani ad accarezzarti quei capelli che non pettinavi mai. “Papà sono ricci.” E non era vero che “ogni riccio, un capriccio”. Per ogni tuo riccio si scatenavano dieci tempeste. Però eri buona. Eri tanto buona Leá. Eri tua madre, senza la sua paura di vivere. Dovevi stare a casa Leá. Dovevi credermi quando ti dicevo: “sono tuo padre, decido io.” Tu la chiamavi dittatura, io speravo fosse protezione. Ma non è servito. Tanto non è servito. Ho sentito il boato Leá. E ho sperato che, tempo dieci minuti, suonaste tu e Thomas. Ho sperato che arrivaste piangendo, dicendomi: “sono arrivati. Sono qui e hanno aperto il fuoco tra mille grida e mille occhi.” Li avrei chiamati “porci”, avrei insultato tutto quello che concerne la loro cultura. E mi sarei chiesto in nome di quale dio si possa compiere una tale mattanza. Ho sperato che tra quei 128 morti non ci fossero i vostri nomi. Ho sperato di non vedervi ridotti ad una riga su un quotidiano. Ho sperato che non esistesse un uomo capace di sparare a sangue freddo contro altri uomini. Ed invece erano otto. Non uno. E vorrei sapere chi è stato a guardarti. Chi ha avuto questo onore: guardarti un’ultima volta prima di toglierti la vita. Prima di portarsi via le tue mani affusolate o le tue magliette sempre a maniche corte. Vorrei sapere chi ha avuto il coraggio di non innamorarsi di te sprofondando nei tuoi occhi blu. Chissà cosa hai provato. Chissà come ti stava il terrore addosso. La consapevolezza che fosse finita e che non avresti avuto più possibilità dalla vita. Niente laurea Leá. Ma tanto non avresti trovato lavoro facendo arte. Lo sapevi, te lo ripetevo sempre. E ti chiedo scusa, perché tu l’amavi così tanto. Scusami se puoi Leá. Perdona un uomo che ha perso tutto: la moglie e la figlia. Perdona un uomo che non ti ha dato il valore che meritavi. Perdona un misero, un vile, un vigliacco. Perdona chi non avrebbe guardato negli occhi nessuno il minuto prima di morire. Perdonami Leá. E mi chiedo come staranno gli altri genitori. Come starà chi ha perso il figlio senza una parola di cortesia. Mi chiedo perché. Perché tu. Perché tu ed io. Perché tu e Thomas. Dovevi tornare a casa Leá. Dovevamo fare pace e continuare a leggere quel libro di Baudelaire che tu mi stavi spiegando. Mi chiedo in nome di quale religione si possa agire così. Mi chiedo se sia lecito uccidere in nome di dio. Mi chiedo se qualcuno gli ha gridato che erano tutti bastardi. Non si tratta di religione o cultura, si tratta di umanità. E allora mi chiedo cosa ci rende tanto differenti da una bestia. Mi chiedo con quale coraggio ci riteniamo superiori. E non ottengo risposte se non un disperato silenzio. Ho pianto Leá. Ho fatto scorrere quelle lacrime che tu mi recriminavi. Quelle che “non hai mai versato per la mamma”. E invece ora piango. Piango tanto. Mi faccio pervadere dal dolore consapevole che non ti vedrò più. Consapevole che non ti accompagnerò all’altare. Consapevole che qualcuno, magari un padre come me, ti ha sparato a sangue freddo, urlando qualcosa che non avrai sicuramente capito. Consapevole che non ti ho protetta. Che non c’ero e che non ci sarò. E non ci sarai. Mai più. Voglio che tu sappia una cosa Leá: non importa quanto ci siamo odiati, quante volte ti ho rincorso fuori casa, quanto tu mi abbia urlato addosso che facevo schifo. Non importa quanto tu abbia desiderato nascere in un’altra famiglia. Voglio che tu sappia che sono fiero di essere tuo padre. Fiero di averti avuta accanto. Fiero dei tuoi schiaffi che mi hanno fatto diventare un uomo migliore. Fiero di averti accompagnata nelle tue piccole vittorie e nelle tue grandi sconfitte. Sono fiero di averti vista crescere e tua madre sarebbe d’accordo. Ti voglio bene Leá. E mentre loro sparano gridando: “Allah è grande”, io piango chiedendo a Dio la forza per svegliarmi domani e vivere con la tua stessa volontà.
Riposa in pace figlia mia”.
Papà Andres.




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